Olympiakos-Fiorentina: nomadi nella mente, liberi da qualsiasi preconcetto (2024)

Quando alle prime luci dell’alba la polizia bulgara mi ferma, a pochi metri dall’ingresso dell’aeroporto di Sofia, chiedendomi perché mi trovi lì e cosa stia aspettando, l’istinto sarebbe quello di scoppiare in una fragorosa risata al cospetto delle loro facce serie, che lasciano intendere la certezza di essersi finalmente imbattuti in qualche latitante di vecchia data. Peccato che prima il mio passaporto italiano e poi il mio biglietto del pullman per Atene facciano regredire il loro “entusiasmo”, lasciandoli con un pugno di mosche in mano. Gli spiego che sto semplicemente attendendo che apra la metro per raggiungere l’autostazione e, sebbene rimangano alquanto stupiti dal fatto che qualcuno, da Roma, abbia raggiunto Sofia in aereo, attendendo poi qualche ora per raggiungere via terra la Capitale ellenica, mi salutano e se ne vanno. Certi atteggiamenti, penso, sono evidentemente “propri” di determinate categorie. Chissà se anche qua esistono barzellette appositamente dedicate (ma non credo, considerata la poca ironia degli autoctoni).

Dopo il travagliato, quanto avventuroso, viaggio di andata e ritorno per Dublino, in occasione della finale di Europa League, un’altra pagina dei miei spostamenti non convenzionali sta per essere scritta. Gli obiettivi in pochi giorni sono Atene, come detto, e Londra. Ergo: rispettivamente le finali di Conference e Champions. Quando raggiungo l’autostazione di Sofia sono ancora le 6. Il mio pullman partire alle 7:30, pertanto ho tutto il tempo di fare colazione nei forni posti proprio all’uscita della stazione metro. Mi fa sempre “ridere” osservare la contraddizione di alcuni Paesi dell’Est Europa: da una parte c’è la voglia istituzionale di entrare in Europa e, addirittura, adottare l’Euro come valuta. Dall’altra una totale idiosincrasia da parte della popolazione, che oltre – giustamente – a non volerne sapere nulla della moneta continentale, rifiuta categoricamente anche aggeggi per favorire il pagamento elettronico. Così, dopo vari tentativi, mi ritrovo di fronte a un fornaio che parla un italiano tutto sommato migliore rispetto a quello di Cassano e che mi permette di pagare in Euro la mia banitsa, il mio ayran e la mia acqua per il viaggio. Ovviamente questo “lusso” ha un prezzo, con il “simpatico” negoziante che mi fa la cresta di 10/20 centesimi, chiedendomi anche se il cambio Lev/Euro da lui letteralmente inventato sia giusto. Non discuto, rispondo con una risata di chi ha perfettamente capito, prendo le mie cose e me ne vado. Anche perché un po’ di sonno comincia a prendere il sopravvento.

Mi aspettano circa tredici ore di pullman, necessarie a coprire gli ottocento chilometri che dividono Sofia da Atene. Un percorso che mi intriga e che vedrà il mio torpedone prima valicare il confine tra i due Paesi e poi lambire Salonicco e Volos, le due città più grandi di tutta l’Ellade, dopo la Capitale. Grecia tanto celebre per le sue isole quanto sottovalutata nel suo entroterra e nelle sue campagne brulle, poco abitate. Degli otto valichi di frontiera disseminati sui 494 chilometri di confine greco/bulgaro, a me “toccherà” quello tra Kulata e Promachonas, posto nella regione storica della Macedonia. Il pullman è praticamente vuoto e questo concilia alla grande il mio sonno, che viene interrotto soltanto dall’obbligo di scendere per porgere i documenti ai doganieri. Il mio stato di rincoglionimento non mi fa realizzare che i gabbiotti della polizia bulgara e greca siano adiacenti, così penso bene di saltare il primo e dare il mio passaporto immediatamente a un’agente ellenica, provocando le urla isteriche del collega, che reclama i miei documenti. Il mio sorriso beffardo non funziona e in bulgaro mi spiattella chissà quale insulto!

Si può andare avanti e chilometro dopo chilometro il panorama si fa sempre più armonioso, con il mare che per gran parte del tempo scorrerà alla mia sinistra, disegnando i contorni di un Paese che alla sua distesa blu deve gran parte della propria economia. Attorno alle 20 il pullman arriva con una certa puntualità in Platia Karaizkaki. Sono passati ben quattordici anni dall’ultima volta che sono stato ad Atene, ma bastano cinque minuti per tornare ad avere quella sensazione di città caotica e tendente al disordine generale. Una delle poche Capitali che nel bene e (ahimè) soprattutto nel male, mi ricorda Roma. La prima tappa, obbligatoria, è l’ostello, per lasciare i miei bagagli e poi godermi una cena con il sempre notevole cibo greco. Facendo la spola tra metro e autobus, noto i primi manifesti che esaltano la disputa della finale di Conference nel nuovo stadio dell’AEK, nel nuovo stadio Agia Sophia. Mentre in più angoli si scorgono murales delle tre principali squadre ateniesi, un antipasto di ciò che vedrò nei due giorni successivi. La finale in questa città, inutile dirlo, richiama la mia grande curiosità. Non che sia la prima volta che un evento simile si svolge qui, ma è la prima volta che una squadra greca disputa l’ultimo atto di una kermesse in casa, con “l’aggravante” che lo stesso si disputerà in un impianto tradizionalmente rivale all’Olympiakos. E dal momento in cui anche i muri sanno quale sia il livello delle inimicizie a queste latitudini, per chi è chiamato a commentare i tifosi la cosa risulta a dir poco interessante. Inoltre a contendere il titolo al club del Pireo ci sarà la Fiorentina, alla sua seconda finale di Conference consecutiva. Una trasferta impegnativa e logisticamente difficile quella per i tifosi viola, che tuttavia – come avrò modo di spiegare – non si faranno trovare impreparati. In queste occasioni non bisogna far attendere troppo Morfeo, onde evitare di vivere la giornata successiva offuscati dalla stanchezza. Punto la sveglia alle 7 e mi lascio andare a un sonno profondo.

L’indomani il sole riscalda potente l’Attica già dalle prime ore del mattino. La giacca che ho tenuto addosso fino al mio arrivo è del tutto inutile, anzi durante la giornata risulterà a dir poco ingombrante. Il primo step da compiere è ritirare l’accredito nei pressi dello stadio. Lambisco l’Acropoli, ragionando su quale sia il momento migliore per visitarla, e poi salgo sul mio autobus che ha come destinazione finale Nea Filadelfia, il quartiere dove la casa dell’AEK è ubicata. Una storia tortuosa, molto greca, la sua, per la quale bisogna partire dalle origini. E più precisamente dal 1926, quando una parte della zona viene “regalata” a dei rifugiati politici di ritorno dalle guerre combattute e perse contro la Turchia. Quattro anni più tardi viene inaugurato lo stadio dell’AEK, il Nikos Goumas, che resterà la casa dei gialloneri fino al 2003, quando l’allora presidente Giannis Granitsas pensa bene di abbatterlo per far spazio – a suo dire anche per ovviare ai danni causati dal terremoto del 1999 – al nuovo impianto. In realtà la prima pietra verrò posata soltanto nel 2017, in mezzo diverse presidenze cambiate, una retrocessione dell’AEK e ben quattordici stagioni giocate in esilio allo stadio Olimpico. Il ritorno a casa avverrà nel 2022, con l’Agia Sophia (nome che omaggia l’omonima basilica di Istanbul, a cui sono dedicati anche gli esterni dello stadio, che ricalcano la sua cinta muraria) finalmente aperta e costruita proprio sul sito del vecchio stadio. A suffragio di tutto ciò, dunque, ci troviamo a tutti gli effetti in una zona che è feudo giallonero e che si appresta a ospitare una delle acerrime rivali cittadine. Va ricordato che ormai da diversi anni in Grecia tutti i derby (e quasi tutte le partite in generale) sono vietati agli ospiti. Per molti tifosi biancorossi, dunque, sarà la prima volta in uno stadio che non sia il Geōrgios Karaiskakīs.

Per farvi capire l’acredine che corre da queste parti, basti pensare che al momento del ritiro del mio accredito, il ragazzo del media center dopo avermi rilasciato il pass mi fa: “Forza Fiorentina!”. Gli dico che non sono né di Firenze e né tifo per la Viola. Ma che soprattutto mi interessa davvero poco chi alzerà la coppa. Lui si limita a spiegarmi che essendo tifoso del Panathinaikos, a prescindere, oggi tutti gli italiani sono suoi amici e alleati contro l’Olympiakos. Capita l’antifona non controbatto ed esco, concedendomi un bel giro dapprima attorno allo stadio per fotografare la zona ancora semivuota, e poi dentro al bosco di Nea Filadelfia (teoricamente chiuso, ma praticamente aperto per me che scavalco un nastro apposto in maniera alquanto approssimativa) dove ci sono decina di murales degli Original 21, il gruppo portante del tifo giallonero. Incamminandomi verso la metro, mi imbatto nello stuolo di sciarpe e fiori che commemorano Michalis Katsouris, tifoso dei Kitrinomavriucciso durante gli incidenti scoppiati nell’agosto dello scorso anno a margine del match contro la Dinamo Zagabria. Fatti di cronaca nera, che tuttavia ben si incastonano con la realtà ateniese e con una scena curvaiola che si evidenzia per la commistione potente tra modello italiano e deriva hooligans. Oltre a radicarsi giocoforza in una realtà sociale tutt’altro che facile, falcidiata nell’ultimo decennio dalla grave crisi economica in cui tutto il Paese è occorso. Recessione culminata con l’intervento dell’Unione Europeo e con la tristemente celebre “trojka”, che più di qualcuno ha equiparato a un vero e proprio commissariamento della Grecia, svilendo definitivamente sovranità e potere d’acquisto dei suoi cittadini. Il conflitto sociale è forte e trova di fronte un sistema politico del tutto incapace e impreparato a far fronte alla necessità dei più. Atene, inoltre, è l’unica vera metropoli della nazione, dove sovente si manifestano tutti i mali endemici di questo tipo di realtà, cominciando dal disagio e dalla povertà ben tangibile in alcuni angoli delle strade e del centro. Uno spaccato che da un lato rispecchia il presente dell’Ellade e dall’altro cattura cuore e sentimenti per la sua profonda e millenaria storia. Non si può camminare per le strade di questa città senza volgere il proprio sguardo alla maestosa Acropoli o senza pensare al suo passato glorioso, alla culla della democrazie e alla sua lingua che – seppur ben diversa da quella attuale – ha ispirato poeti, filosofi e pensatori. Ed è una storia che si intreccia con quella dell’Italia, tanto che in molteplici anfratti del nostro Paese ritroviamo riferimenti culturali e strutturali. Resta davvero svilente parlare di tutto ciò in un simile articolo e in così poco spazio, ma è obbligatorio farne cenno, almeno per capire il luogo tutt’altro che convenzionale dove ci troviamo. E questo lo dico da profondo ammiratore del senso di ribellione che ammanta il popolo greco, da quel poco amore per le istituzioni e per l’ordine costituito, che sicuramente ne costituisce pregi e difetti, ma che ti fa vedere gente senz’altro più verace di tanti europei ormai standardizzati e omologati alla globalizzazione latente.

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A Piazza Monastiraki, mentre divoro letteralmente mezzo kg di ciliegie comprate in uno dei carrettini presenti in zona, decido di rimandare alla mattina successiva il giro sull’Acropoli, in maniera da potermi recare dapprima al Pireo, dove è previsto il concentramento di tifosi dell’Olympiakos, e poi nella zona dello stadio Olimpico, dove la UEFA ha allestito la fan zone per i tifosi italiani. A tal proposito, un po’ di numeri: a Firenze sono stati venduti circa diecimila tagliandi, con il grosso dei tifosi e dei gruppi organizzati che arriverà con voli charter. Questi ultimi verranno presi in consegna dalla polizia greca direttamente sulla pista di atterraggio, con navette incaricate di trasferire i supporter toscani al meeting point (un posto a dir poco infelice, come vedremo tra poco). La paura di incidenti e tensioni è tanta e si percepisce quanto le autorità locali abbiano dovuto fare uno sforzo forse ben oltre le proprie possibilità (e capacità) per non sfigurare agli occhi del Vecchio Continente. Senza entrare in discorsi geopolitici che conosco solo sommariamente, parliamo pur sempre di forze dell’ordine che – come detto – risolvono tutti i loro problemi chiudendo stadi e settori. O disputando finali di coppa nazionali su qualche isola dispersa nell’Egeo. Chi vi ricordano? Esattamente, proprio loro…i nostri prodi. Coloro i quali tra qualche anno esulteranno narrando ai posteri la loro riproposizione del modello greco!

Bando alle ciance: è tempo di riprendere la metro e dirigersi al Pireo, più precisamente allo stadio Geōrgios Karaiskakīs, dove i supporter degli Erithrolefki si stanno cominciando a radunare. Siamo un’ora avanti rispetto all’Italia e, dunque, il calcio d’inizio è previsto per le 22. Sono le 14 quando scendo nella stazione di Faliro, costruita proprio a pochissimi metri dallo stadio. Malgrado manchino otto ore al fischio d’inizio, ci sono già tantissimi tifosi nella zona. Più tardi da lì prenderanno la metro raggiungendo Nea Filadelfia, nel frattempo tuttavia si godono la giornata alla loro maniera: svariati clacson strombazzano per le strade, gruppuscoli sparsi qua e là cantano di fronte alle telecamere delle televisioni nazionali e in giro fanno la loro apparizione banchetti intenti a vendere bandiere e sciarpe. Uno di questi dimostra di gradire poco la mia presenza, invitandomi a cancellare la foto fatta e ad andarmene. Ovviamente, pure in questa occasione, non controbatto e vado avanti. La sensazione, in parte giusta, è che il Pireo – storico e millenario porto di Atene, oggi comune a sé conurbato nell’area metropolitana della Capitale – sia quasi un mondo a parte rispetto al resto della città. Dove l’Olympiakos è la religione dei suoi abitanti e questa finale viene attesa con un fervore e un’agitazione quasi sudamericana. Bambini, donne e gente palesem*nte avvezza al mare (a buon intenditor…) indossano la maglia a strisce biancorosse, con un viavai che con l’incedere del tempo si fa sempre più intenso tra la metro, lo stadio e la zona del porto.

Se poc’anzi abbiamo sottolineato il valore storico dell’area che ospita l’Agia Sophia, altrettanto va fatto con il Karaiskakīs. I primordi di questo impianto risalgono addirittura al 1895, quando con il nome di Neo Phaliron Velodrome, veniva usato per eventi di ciclismo. Dal 1925 in poi l’Olympiakos divenne padrone di casa in fatto di calcio, favorendo una sua ristrutturazione nel 1964 ma divenendo anche involontario protagonista dell’episodio più grave e mortifero mai accaduto al calcio greco: l’8 febbraio 1981, infatti, i biancorossi batterono 6-0 l’AEK Atene, provocando grande giubilo presso i loro tifosi, i quali a fine gara spinsero massivamente verso le uscite del Gate 7 per andare a festeggiare con i giocatori. I cancelli chiusi e i tornelli bloccati finirono presto per creare una ressa che portò alla morte di 21 persone, mentre altre 55 rimasero ferite. Lo stadio verrà completamente raso al suolo e rifatto in occasione delle Olimpiadi del 2004. Alla società verrà concesso l’uso esclusivo del terreno fino al 2052 e dai ruderi del vecchio impianto nascerà uno degli stadi più all’avanguardia del Paese. Oggi fa un certo effetto vedere orde di tifosi passare davanti alla targa che ricorda la tragedia del 1981, fermarsi e farsi il segno della croce. Al contempo la storia recente ci dice quanto le Olimpiadi del 2004 siano state cruciali per lo sviluppo di alcune infrastrutture nella capitale greca, che fino a quel momento versava in una condizione di triste arretratezza.

Ovviamente grandi protagonisti di tutta la zona sono i murales del Gate 7. Tra i tanti spiccano quelli con la dicitura “Porto Leone” – nome che si rifà al Leone del Pireo, statua originariamente presente nel porto ateniese e successivamente portata a Venezia (oggi si trova all’ingresso dell’Arsenale) da Francesco Morosini, durante le guerre della Lega Santa contro gli ottomani – e i riferimenti alla storica e forte amicizia con gli ultras della Stella Rossa (Orthodox Brothers). L’Olympiakos è, di fatto, la squadra più tifata – e anche più titolata – del Paese con i suoi 47 scudetti: si conta che siano circa cinque milioni (compresi anche tra la comunità ellenica sparsa nel Mondo) i suoi sostenitori. Il club lega il suo nome ai giochi olimpici antichi e il suo stemma a un vincitore degli stessi coronato d’alloro, simbolo retorico che coincide alle virtù di moralità, onore, competizione, sportività e lealtà. Chiaramente, come la stragrande maggioranza dei sodalizi greci, i biancorossi possono vantare diverse discipline all’interno della Polisportiva. La più celebre, assieme a quella calcistica, è probabilmente quella cestistica. Una sezione che nei giorni precedenti aveva visto protagonisti i biancorossi nelle semifinali di Eurolega, a Berlino. Assieme agli arcirivali del Panathinaikos (poi vincitori della kermesse). Cosa che ha provocato pesantissimi scontri nella Capitale tedesca, con circa sessanta arresti e oltre cento indagati in seno al Gate 7. Del resto nessuno mi toglierà dalla mente, qualche anno fa, l’immagine di alcuni tifosi dell’AEK presenti in Islanda in occasione di una sfida della loro squadra di pallamano. Questo sono i greci: un popolo folle (ovviamente lo dico bonariamente) che affonda le radici nella storia per vocazione sportiva e partecipazione agli eventi delle proprie squadre. Si possono muovere tantissime critiche ai tifosi ellenici, ma di certo non parliamo di gruppi o seguaci dell’ultima ora. Qua – come nel resto dei Balcani – esistono gli ultras perché lo sport (qualsiasi disciplina) scorre nelle vene del popolo. Ed è un retaggio culturale innegabile e al contempo bellissimo.

Lo spaccato sociale che questa zona mi offre, mi inviterebbe ad approfondire ancora di più, se non fosse che voglia vedere anche cosa succede su fronte viola e che, comunque, non posso prendermi più di tanta confidenza. Mi lascio alle spalle quello che per certi versi sembra essere un piccolo quadretto delle borgate romane in determinati momenti di gloria o attesa calcistica, quando anche il meno avvezzo al football si cimenta con sciarpe, bandiere e trombette dal finestrino, avviandomi nuovamente verso la metro per una puntatina al porto, dove la miscela di gente tipica di questi posti mi comunica sempre allegria. Così come tanta gioia me la danno i gyros a buon prezzo (con tanto tzatziki dentro!). Quando vedo numerosi gruppetti che sembrano organizzati, scendere le scale e dirigersi verso lo stadio, decido di andare definitivamente verso il meeting point dei fiorentini. Tra non molto si formeranno ingorghi e code alla stazione di Faliro, e voglio evitare inutili perdite di tempo. Il sole battente e l’afa sono veri e propri padroni della città e di certo non aiutano a girare con nonchalance. Ma a giudicare dall’area scelta dalla UEFA per i sostenitori gigliati, evidentemente qualcuno non conosce bene il clima locale: un grandissimo spiazzale di cemento senza mezzo albero e senza tendoni. Praticamente una fornace a cielo aperto dove le succulenti opportunità sono: abbronzarsi gratuitamente, a tal punto da prendere un’insolazione, sudare eventuali birre bevute, o scappare via per salvare la pelle. L’ho già sottolineato nel racconto della finale di Europa League, ma lo confermo anche in siffatta occasione: boicottare le fan zone non è solo un compito di “mentalità”, ma un dovere civile. Chi si occupa di organizzare e pensare certi luoghi, dovrebbe a dir poco vergognarsi. Mettiamoci poi che in questa occasione la maggior parte dei viola (quelli arrivati con i charter) non avevano molta scelta, “deportati” qui senza poter andare altrove. Tanto è vero che alla fine la polizia asseconderà le proteste dei più, permettendo loro di stazionare in un vicino centro commerciale. Da un punto di vista degli spostamenti, come detto i tifosi “di casa” verranno convogliati verso lo stadio con la metro, mentre per i viola sono pronti numerosi autobus che li trasporteranno nel bosco di Nea Filadelfia, da cui potranno entrare sulle gradinate. Constatato che anche qui la situazione è tutto sommato tranquilla, scattata qualche foto, posso incamminarmi – quando mancano tre ore al fischio d’inizio – verso lo stadio. Preferisco concedermi un’altra passeggiata, stavolta per le vie di Nea Ionia, altra zona di chiara fede AEK, dove i murales spopolano e io posso sbizzarrirmi con le foto. Non nego che una delle cose più belle di questi tre giorni saranno proprio i graffiti, anzi ammetto che mi dispiace aver potuto immortalare solo quelli delle tre squadre principali, perché sono certo che anche tifoseria “secondarie” come Panionios o Atromitis (due esempi, sicuramente ce ne saranno tanti altri) potevano offrire un loro fascinoso contributo. Ma in queste occasioni bisogna fare delle scelte e, anche se contro la mia natura, queste hanno dovuto dare la loro precedenza al “mainstream”. Che poi da queste parti è incredibile appurare come i tre grandi gruppi ateniesi (Gate 13, Gate 7 e Original 21) possano contare sul sostegno attivo di tutto il Paese. Tra murales e striscioni si possono scorgere sezioni di ogni dove: dalle isole più remote all’odiatissima Salonicco!). Ovviamente in un Paese che scarseggia di grandi città e dove il campionato è polarizzato dai club di Atene, non potrebbe essere altrimenti. Ma è sempre impressionante notare sin dove arrivino attaccamento e militanza.

Mentre raccolgo alcune arance che crescono spontaneamente sugli alberi disseminati per la strada (quanto è bello il clima mediterraneo!), vedo sempre più aumentare la presenza delle forze dell’ordine, fino a entrare nel bosco di Nea Filadelfia. Rispetto al mattino, faccio il mio ingresso dalla parte posteriore, potendo scoprire nuove scritte e nuovi murales. Altra cosa che colpisce – e che si lega al piccolo cenno socio-culturale fatto in precedenza – è la quantità di messaggi contro la polizia, che qua davvero appare come il primo nemico in quanto rappresentante dello Stato. Gli episodi che hanno visto la morte del tifoso dell’AEK hanno aperto ancor più un dibattito (in realtà cieco e senza veri interlocutori) in seno alle istituzioni elleniche, che nei mesi scorsi hanno provato pesantemente a infliggere punizioni e limitazioni ai tifosi: per quasi due mesi le partite si sono disputate a porte chiuse, mentre in precedenza il governo aveva chiuso tutte le sedi delle associazioni di tifosi. Un modo molto “italiano” di affrontare la faccenda, andando a coprirsi di ridicolo con decisioni di pancia e senza alcuna volontà di capire cosa davvero potrebbe portare a migliorare la situazione. Ma credo che questo, almeno nell’immediato, sia alquanto impossibile viste le condizioni in cui versa la Grecia. Fa una certa impressione pensare che la terra che fu di Socrate e Platone, sia ridotta a un mero teatrino repressivo e irresponsabile, dove proprio quel modus operandi tirannico – criticato e combattuto da Platone stesso – vince sovente su tutto. Ma è anche vero che quello che vediamo oggi è il frutto di ciò che è stata la storia passata di questa nazione, troppo spesso satellite nell’orbita di pianeti ben più grandi.

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Tornando alla “nostra” serata, ovviamente qualcuno si starà chiedendo se il clima all’esterno dell’Agia Sophia sia incandescente. Se ci siano problemi, scontri o tensioni. La risposta è: il nulla più totale. Le operazioni di afflusso avvengono in modo del tutto tranquillo e regolare. Anzi, al mio arrivo nei pressi dell’impianto, il tifo organizzato dell’Olympiakos è già dentro e sta scandendo i primi cori. Chiaramente non posso sapere se per l’occasione sussistano equilibri esterni, ben al di là delle logiche ultras. Non posso conoscere – sebbene la possa immaginare – quale sia stata la pressione esercitata dalle autorità cittadine affinché tutto filasse liscio. Certamente, su questa calma, pesano anche i sessanta arresti del giorno prima tra le fila biancorosse. Tuttavia, non sapendo, mi limito a fare spiccia cronaca di quanto vedo. E dopo aver respirato il clima all’esterno e aver visto diversi tifosi dei Thrilos farsi fotografare – a sfregio – di fronte ai murales degli Original 21 o all’aquila simbolo dell’AEK posta all’ingresso principale – decido che anche per me è giunto il momento di entrare. Come di consueto questa decisione non coincide con l’immediato ingresso: le indicazioni scarseggiano e gli steward non sanno dove sia l’ingresso media. Addirittura uno di loro, probabilmente per togliermisi di torno, mi indica un posto a caso, che si rivelerà essere la tribuna vip. Devo ancora commentare l’utilità di queste figurine con la pettorina gialla? Non credo ce ne sia bisogno. In questi tutti i luoghi del Mondo hanno l’utilità di un ombrello nel bel mezzo dell’uragano Katrina! Chi fa da sé fa per tre: saggi popolari che non tradiscono mai. E quando me ne ricordo, in men che non si dica trovo la porta giusta. Finalmente ci sono e posso trarre le primissime impressioni sulla sede di questa finale. Senza sé e senza ma: stadio di gran lunga superiore rispetto a quello di Dublino. Fatto bene, ideale per il calcio e per il tifo. Unica pecca (ma è un mio gusto) i due anelli. Tuttavia la capienza non esagerata (circa 32.000 posti) e il modo in cui le gradinate sono raccolte attorno al campo, lo rendono una vera e propria bomboniera. Beffardamente do un’occhiata al settore ospiti, neanche piccolissimo, e mi chiedo quando mai verrà utilizzato. Ormai è lui il vero nemico pubblico delle autorità!

Su fronte biancorosso, come fatto cenno, tutte le insegne sono già al loro posto, mentre nella parte alta del settore campeggia una striscione che a grosse linee dovrebbe significare “Libertà per i nostri fratelli”, con chiaro riferimento ai fatti di Berlino. I greci, come loro consuetudine, fanno un gran rumore nella fase di riscaldamento, tra cori e sciarpata. Per chi non li ha mai visti all’opera questo potrebbe sembrare il presagio all’inferno, chi – invece – qualche volta ha “saggiato” le performance elleniche sugli spalti, sa bene quanto, spesso e volentieri, all’interno dei novanta minuti il tifo faccia fatica a decollare. Praticamente è l’esatto opposto di quanto avviene secondo i nostri canoni. Non a caso, a differenza dei dirimpettai, i viola fanno bella mostra del loro materiale solo una mezz’ora prima del fischio d’inizio e cominciano a scaldare le ugole quando l’avvio delle ostilità è prossimo. La Fiesole formato trasferta vede tutti i suoi striscioni e tutte le sue pezze disposte lungo la vetrata e ben custodite dai gruppi: siamo pur sempre in Grecia e – malgrado l’apparente e strana calma – c’è sempre il rischio che qualcuno salti fuori per “allungare le mani”. Purtroppo la presenza di bandiere è ridotta all’osso, causa inetti divieti imposti agli ingressi dalla polizia (chissà cosa avranno fatto di male le povere aste, combattute da molti ultimamente). Ho già menzionato i circa ottomila tagliandi venduti in riva all’Arno. Un numero che secondo me è più che valido: Atene non è mai una trasferta qualunque e, ai nastri di partenza, più di qualcuno si poteva sentire scoraggiato per il presunto clima che gli italiani avrebbero dovuto trovare. Anche in virtù del particolare incrocio stracittadino. Va detto poi che il prezzo dei voli di linea ha raggiunto da diverse settimane picchi vergognosi e più di qualche ragazzetto ha dovuto raschiare il fondo del barile per non rinunciare all’appuntamento. Sta di fatto che la Firenze Ultras c’è ed ha risposto presente a un evento che incrocia importanza sportiva con quella del tifo e dell’appartenenza. Di certo i viola non sono giunti in Grecia per fare da sparring partner e, pur comprendendo il profilo “tranquillo” tenuto (in fondo non avevano motivo di alzare i toni, essendo per giunta fuori casa e quindi non tenuti a fare eventuali primi passi), hanno messo nero su bianco il valore e la sostanza del modello italiano.

Le ostilità si aprono ufficialmente quando gli altoparlanti irrorano gli inni delle due squadre, con le tifoserie che mettono in mostra belle e compatte sciarpate. Dopodiché inizia la gara del tifo e su questa, nessuno me ne voglia, mi sento di dire che i fiorentini hanno vinto nettamente: un primo tempo davvero ineccepibile fatto di mani, voce e sciarpe, un secondo ancora su ottimi livelli e due tempi supplementari che lentamente gettano il popolo gigliato nella disperazione, fino alla rete greca siglata al 117′, ma complessivamente una tifoseria “degna” di una finale e che davvero non può rimproverarsi nulla. In questi ultimi anni ho più volte incrociato la loro strada e mi sono sempre trovato a commentare positivamente questo “corso” della Fiesole. Oggi non posso che ribadire quanto di buono detto, evidenziando come – inoltre – in occasione di un piccolo parapiglia scoppiato nella tribuna dopo il duplice fischio, tra qualche tifoso di casa e alcuni italiani, quasi l’intero contingente ultras si sia scagliato per difendere l’eventuale causa. Il ritorno della squadra in campo per sedare gli animi ha posto fine a qualsiasi velleità, ma di certo rimango alquanto allibito per il comportamento dei biancorossi, i quali a più riprese, durante il match, hanno scandito in un italiano perfetto cori contro i dirimpettai, salvo rimanere impalati nel momento più “concitato”. Ma se in questo caso la critica è “soffusa”, più incisiva deve essere quando parliamo di tifo: è vero che quando si parla di tifo ellenico non bisogna mai assimilarlo troppo al nostro modo di vivere lo stadio. A queste latitudini c’è un infinito senso di appartenenza e ribellione (e quest’ultimo da noi si è sicuramente perso), ma nei novanta minuti si fatica tremendamente a mantenere intensità e costanza. I motivi sono diversi: sicuramente pesa tantissimo l’importanza della posta in palio e la tensione dei presenti, anche se personalmente non riesco a utilizzare questi elementi come giustificazione totale. Poi, malgrado esistano dei gruppi e dei ragazzi col megafono in mano, c’è sicuramente uno spontaneismo molto più diffuso rispetto al nostro Paese. Questo lo si nota anche dal fatto che tutti seguono la partita in piedi, anche nelle tribune (gli omini gialli inizialmente hanno provato a far sedere i presenti, il risultato non lo narro per evitare accuse di istigazione alla violenza. Comunque non si è seduto nessuno!) e che i cori in molte occasioni partano da “focolai” ben distanti da dove si trovano le pezze del tifo organizzato. Però ritengo che quanto visto sia davvero troppo poco. Soprattutto se rapportato all’occasione storica: prima volta di una squadre greca in una finale europea e possibilità di sparigliare tutte le avversarie storiche con un trofeo che da queste parti assume davvero contorni leggendari. I cori sporadici e sempre uguali, i battimani eseguiti di rado e il poco piglio dimostrato, non possono essere cancellati dall’esultanza al gol di El Kaabi, che per quanto mi riguarda è una delle più forti e clamorose che ho mai visto in vita mia.

La sconfitta getta ovviamente nello sconforto i tifosi viola, che si lasciano andare a una vistosa contestazione nei confronti dei giocatori, che attoniti guardano il settore in silenzio. Tre sconfitte in altrettante finali negli ultimi due anni, questo recita il terribile ruolino di marcia di una tifoseria che non vede la propria squadra alzare un trofeo ormai da ventitré anni (Coppa Italia 2000/2001) e che è divenuta ormai ostaggio dei propri sogni e dell’amore per la propria maglia. Una rabbia comprensibile, anche per come sono maturate queste sconfitte (di certo l’avversaria odierna non era propriamente irresistibile) e che davvero appare inconsolabile. Per loro, l’unica nota da salvare, è la prestazione ultras. Un altro tassello che può permettere ai toscani di consolidare il proprio status di forma e ribadire una crescita che ormai non fa più notizia. Durante la premiazione, alla chetichella, tutti lasciano il settore vuoto, con un paio di scritte contro i giocatori, fatte al momento con lo scotch, che non lasciano dubbi al sentimento popolare. Ovviamente, dall’altra parte, la festa è totale. Qualcuno piange, qualcun altro sul proprio cellulare guarda la masnada di fuochi d’artificio che stanno colorando il cielo del Pireo. Dopo il successo della Nazionale a Euro 2004, per la seconda volta la Grecia sale sul podio più alto di una competizione internazionale. La coppa, alzata in casa dell’AEK, vale ovviamente doppio e viene abbracciata e coccolata prima dai giocatori e poi dai tifosi, cui viene data “in prestito”. Rimango ancora un po’ per carpire la gioia dei presenti, poi raggiungo la sala stampa per ricaricare il cellulare e bere in santa pace un paio di birre, gentilmente offerte dalla Heineken. L’ora in avanti mi spinge e non sostare troppo, al mattino successivo la sveglia suonerà presto e almeno qualche ora voglio dormirla. Quando esco l’una è passata e, tra le altre cose, non so precisamente dove andare. Raggiungo la metro, nella speranza che sia aperta. Tantissimi tifosi dell’Olympiakos sono in fila, attendendo i convogli. Chiedo a un poliziotto e mi dice che se voglio prendere questo mezzo devo per forza arrivarci al Pireo, perché non fa fermate intermedie, e poi da là cambiare per il centro. Fortunatamente non mi faccio scoraggiare e salgo ugualmente…se è vero che la maggior parte delle fermate verranno saltate, è altrettanto vero che aprirà le sue porte a Omonia (in pieno centro). Tanto mi basta per cambiare con un autobus e raggiungere l’ostello. Evidentemente poliziotti e steward hanno fatto un corso di formazione insieme prima di questa finale. In cattedra qualche caporione dell’Osservatorio!

Una giornata simile – intensa, piena di emozioni e di cose da fare – non lascia mai i suoi strascichi. Perché riesce ad assorbire persino la stanchezza, rilasciando una buona dose di adrenalina. E allora non ho grandi problemi ad alzarmi presto, fare definitivamente i bagagli e lasciare l’ostello. Le ultime cose mi aspettano, prima di prendere la (lunga) strada che mi condurrà a Wembley: l’Acropoli, lo stadio Panathinaikoe lo stadio Apostolos Nikolaïdīs, casa del Panathinaikos. Sono tre pezzi di una storia diversa ma concomitante. Tre bellezze che vanno interpretate diversamente. Perché, sebbene già ci sia stato, non potevo lasciare Atene senza aver visto il suo cuore. Nonché il cuore di parte della nostra identità culturale europea e mediterranea. Pur mal sopportando la ressa di turisti (che già alle 8 si mettono in fila) trovarsi in cima, con il Partenone alle spalle e buona parte dell’Attica davanti ai miei occhi, è una sensazione impagabile. Qualche mese fa ho avuto l’opportunità di visitare la Valle dei Templi e oggi che mi trovo qui non posso che tirare una riga lunga migliaia di chilometri, che unisce prontamente due terre. Così come mettere piede prima allo stadio Panathinaiko(costruito nel 560 a.C. per ospitare i Giochi Panatenaici, in onore alla Dea Atena, con marmo del Monte Pentelico e utilizzato nell’era moderna per ospitare i giochi della prima Olimpiade nel 1896) e poi in quello “moderno” del Panathinaikos, ti fa capire quanto la trama storica tenga in vita anche la Grecia attuale. A proposito del Nikolaïdīs, ovviamente a tenere banco sono i murales, anche qui imponenti e sterminati. Lo stadio era stato abbandonato nel 2008 per far spazio a una struttura più capiente, ma a causa della grave crisi economica che ha investito il Paese, è stato in fretta e furia riaperto nel 2013, con una capienza ridotta a 16.800 unità. Si tratta dalla mia ultima visione in questo breve soggiorno ateniese. La 18:30 sono prossime e il mio pullman per Sofia di certo non attenderà. Ricontrollo capillarmente di non aver dimenticato nulla, cominciando dal passaporto. E poi scendo in metro, direzione Platia Karaizkaki. Il torpedone è già parcheggiato e a darmi il “benvenuto” un autista che dopo qualche battuta comincia a parlarmi in italiano, dicendo di aver lavorato per anni a Modena. Faccio nuovamente rifornimento di acqua e salgo, stremato, a bordo, dove mi attendono altre tredici ore per le strade greche e bulgare. Il mio viaggio non è finito, ma il mio giro di boa tra l’Europa meridionale e quella britannica si sta per compiere, con giacche e felpe che mi torneranno giocoforza utili. Lascio Atene con dispiacere, voglioso di conoscerne ancora più anfratti proprio per questa sua anima ruvida ma viva. Lascio Atene con la consapevolezza di poterne parlare giusto il minimo indispensabile, viste le mille sfaccettature da cui è composta e di cui si ciba. Lascio Atene con un’altra finale alle spalle e con la certezza che troppe volte noi italiani consideriamo migliore l’erba del vicino senza davvero averne saggiato l’essenza. Il mio viaggio continua e con esso il continuo cambiamento di vivere e valutare persone e situazioni. Perché viaggiare significa, talvolta, ricredersi e buttar giù i propri muri e i propri preconcetti. Anche a costo di incassare delusioni e cancellare falsi miti. Permane, personalmente, l’importanza di rimanere nomade nella mente, libero da qualsiasi paletto!

Simone Meloni

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